BENVENUTI
Il sipario si alza come il coperchio di una bara, rivelando ciò che avresti preferito sepolto.
Il Teatro Della Follia non è un luogo che si possa calpestare, né un’associazione che si possa nominare; è un abisso travestito da palcoscenico, un intreccio di voci e silenzi che si snodano tra le vene del tuo essere.
Per entrare non devi varcare una porta, ma oltrepassare la fessura che si apre nella fragilità del tuo cuore, nella piega invisibile di un pensiero che temevi di pensare.
La mia penna è un’arma. Vuole fare male, vuole squarciare il velo delle illusioni, entrare nella tua mente e lacerarti il cuore. Vuole costringerti a pensare, a piangere, a riflettere su ciò che hai sempre dato per scontato, per poi ribaltare gli schemi preconfezionati. Il mondo è un teatro, e noi siamo attori con infinite maschere. Ma qui, tra questi sipari consunti e l’odore acido della verità, puoi scegliere di strapparle via tutte e scoprire chi sei veramente.
Qui, tra sipari che si alzano come polmoni esausti e luci che si spengono e si accendono come lucciole impazzite, non ci sono regole. Non c’è trama, né copione; solo frammenti di specchi che riflettono volti che non ricordi di aver indossato. Ogni passo è un sussurro che si perde nei corridoi fatti d’aria, ogni respiro un grido soffocato.
Il Teatro ti avvolge e ti trascina in un viaggio senza meta, un vortice dove il tempo si sgretola e le pareti si stringono come arterie pulsanti, pronte a soffocarti con ciò che sei. Qui le ombre danzano senza ritmo, gli echi cantano senza melodia; tutto vibra di un senso oscuro, nascosto dietro il sipario del non detto.
Non aspettarti risposte; sono serpenti scivolosi che si dissolvono al tatto, ingannatrici che ridono nelle pieghe della tua mente. Se avrai il coraggio di seguire il labirinto fino alla fine, troverai qualcosa di diverso, qualcosa di infinitamente più prezioso.
Qui, nel cuore del Teatro Della Follia, non troverai risposte. Troverai te stesso.
L'ANIMA A BRANDELLI
Confessioni tra inferno e paradiso
Ci sono luoghi nella mente che sarebbe meglio non visitare mai, angoli umidi e bui dove la luce non osa posarsi. Eppure, io ci sono caduto dentro. Non è stato un atto volontario, no. È come se un filo invisibile mi avesse tirato giù, sfilacciando piano il tessuto della mia sanità, fino a lasciarmi lì, nudo e tremante, davanti a ciò che restava di me stesso: un’anima ridotta a brandelli.
Ogni frammento era un ricordo, una colpa, un dubbio che pulsava di vita propria. Li osservavo, uno per uno, con la stessa morbosa curiosità con cui si fissa una ferita aperta, incapace di distogliere lo sguardo anche mentre il sangue continua a colare. C’era un ordine, un disegno, forse, in quella frammentazione. Ma io non lo vedevo. Non lo capivo. E così raccoglievo ogni pezzo, stringendolo tra le mani come se potessi ricucirlo, come se esistesse un filo abbastanza forte da tenere insieme quel caos.
Mi sono ritrovato a dialogare con i miei brandelli. Con una vecchia cicatrice che sapeva di abbandono. Con una risata che odorava di infanzia perduta. Con un’ombra che si chiamava rimorso. “Perché mi tormentate?” urlavo, e loro ridevano, ridevano di me, del mio tentativo disperato di dare un senso a ciò che senso non ha mai avuto.
Eppure, in quel delirio, c’era una bellezza straziante. Un’armonia oscura, come una sinfonia suonata con corde spezzate. Ogni dolore, ogni fragilità, ogni segreto nascosto nelle pieghe più profonde del mio essere si alzava in un canto che mi squarciava il petto, ma che al tempo stesso mi faceva sentire vivo. Vivo nella mia frantumazione. Vivo nel mio disfacimento.
Non c’è salvezza, in questa storia. Non c’è pace. Solo il pulsare irregolare di un cuore che batte contro la propria rovina, un cuore che si ostina a vivere anche quando tutto intorno sembra morto. E così vado avanti, trascinandomi dietro i miei brandelli come una veste troppo pesante, troppo logora, troppo vera.
Questa è la mia confessione. O forse è solo un delirio. In fondo, che differenza fa?
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